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17-02-2018

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Sinu, il pastore dal dolce carattere
Un saluto a tutti
Dopo due anni e mezzo... mi decido a rispolverare un altro ricordo di montagna: "Sinu, il pastore dal dolce carattere"
La mia storia precedente (Federico Tiboldo, pastore conosciuto al Pianprato, 1985 - GOL 17-9-2015) si concludeva così: "La mia ormai è la visione di un tempo e di modi di essere che non esistono più. Ne son passati di anni ed è cambiata anche la gente che porta le bestie in montagna. Quelli che incontri adesso, anche a casa del diavolo, hanno il satellitare e dialettiche più evolute..." Ma ecco invece un altro incontro "vecchio stampo", ritrovato sfogliando le pagine immateriali del libro interiore. Ogni volta è come trovare un quadrifoglio tra le pagine, da esse pressato e in esse nascosto per anni.

E' il 24-8-2005, parto da Rassa, 910 m, su a sinistra per la val Sorba, supero l'Heidi, avanti per 2 km all'alpe Toso (1600 m) e su al Lago Lamaccia (1900 m), foto 1 e 2. Al fondo della piana del Lamaccia, molti ruderi di baite che visti dall'alto tradiscono l'antica idea e volontà di voler formare un piccolo villaggio, perchè una volta andare fin lì era lavoro; per chi aveva le bestie era necessità di vita, una delle poche alternative per chi viveva di pastorizia, e più di uno andava in posti così sperduti. Per alcuni mesi andava incontro a solitudine, a ore di cammino dal più vicino fondovalle, per vivere una vita arcigna ed in assenza totale di qualsiasi comodità. Per dare l'erba migliore alle greggi, e forse per qualcuno era una via di mezzo tra un male necessario e l'attrazione per un tipo di libertà.
Dopo il Lamaccia, ancora su, quasi un'ora per raggiungere Pian Prato, 2200 m, un catino spettacolare (foto 3) dove in estate transumava il pastore Tiboldo. Al fondo del catino, dietro le casupole in rovina, bisogna cercare la traccia che, iniziando tra i sassi di una pietraia sul fianco destro, sale al Passo della Gronda, 2383 m, sentiero poco tracciato, a scarsissima percorrenza , con pochi segni di decine di anni fa. In quell'anno ci ho lasciato io due bombolette spray, sui sassi più grandi, dal Pianprato al lago della Seja, ma quella è vernice che resiste poco.
Nel 2007 qualcuno mi ha ringraziato sul quaderno dell'Alpe Toso, dove avevo relazionato il mio misero intento, ma dopo soli cinque anni quei segni non si vedevano quasi più. Ogni tanto, invece, si trova ancora una macchia di vecchia vernice rossa, quella messa giù spessa col pennello, quella che seppur un po' abrasa dal meteo ha resistito per 40 anni o più, ed è li che ti conforta del fatto di non essere fuori percorso. Questo infatti è uno di quei giri che non ti manda nessuno incontro, devi saper cogliere i segni, la logica del 'dove si passa meglio', dove sarebbero passati i pastori. Essi, in alta quota, non cercano lo sport, l'avventura, il passo difficile, ma quello più comodo e sicuro per sé e per le bestie.
Devi anche mettere in conto di tornare indietro se prendi una traccia falsa che non porta a nulla, cosa che mi capita spesso, e devi avere davanti ore di luce, se no la tua tranquillità comincia a vacillare...
Dal passo della Gronda si può mantenere la quota seguendo tracce "vedo-non vedo"... o in alternativa scendere e costeggiare due laghetti, con facili tratti un po' tracciati e un po' no, passando per il punto di appoggio Alpe la Gronda, 2258 m, un mini-rifugio sempre aperto con due posti letto, una porta alta 1 metro e mezzo, un localino piccolo ma prezioso, foto 5. Una cuccia per vagabondi.
Continuando si risale un po' e dopo quasi un km, costeggiando a sinistra, cercando le tracce non sempre continue ed i pochi segni di vernice esistenti, senza mai scendere a destra, si arriva di fronte ad un ripido canale erboso, che taglia il costone che cade verso la valle. Per traccia incerta tra zolle molto ripide si sale ad un colle roccioso di un metro di larghezza, a 2300 m ca., per scendere verso il lago della Seja, su traccia ripida segnata, scavata e mantenuta evidente solo da zoccoli di pecore e capre. Tra il lago e la valle c'è un rialzo, si può aggirarlo a destra (se non interessa una divagazione al lago) per passare vicino a tre torri di pietre ben disposte, alte più di 2 m, vicino alle quali c'è un piccolo riparo all'addiaccio, contro una piccola parete, a quota 2200. Foto 6,7,8.
Ma chi passava la notte lì? Fermarmi e immaginare che fino a qualche decina di anni fa, o molto più indietro nel tempo, qualcuno abbia accumulato quelle pietre per ripararsi, e che proprio lì, nel maggior disagio immaginabile, abbia talvolta passato la notte, diventa per me un esercizio inevitabile di mente e di cuore. Mi sembra di porre il mio pensiero attuale accanto a quello di anime antiche, che la suggestione mi spinge a percepire ancora lì intorno, mi sembra di cogliere le sensazioni degli antichi che stazionavano occasionalmente lì, del loro modo di vivere e del loro continuo sacrificio fisico e mentale, e non posso fare a meno, quando riapro gli occhi, di lasciare una preghiera per loro, per quei "chissà chi". Parlerò di questi pensieri anche nella prossima storia, che sto preparando.
Devo proseguire. Respiro a fondo, depongo sul posto quelle suggestioni, insieme ad un amen, e con pensieri nuovi e diversi riprendo a scendere, arrivando all'alpe del Lago, 2040 m. Foto 9. Da questo bel gruppo di case, dove si colgono le tracce della frequentazione estiva di qualche pastore, e qualche buon restauro, la via è finalmente ben segnata da vernici recenti bianco-rosse, che ben disegnano la via per Alpe Salei (foto 10) e poi in val Gronda, per tornare a Rassa. Sotto quota 1500 si passa tra le sei baite in fila di Alpe Straiga, che il sentiero taglia curiosamente in mezzo, foto 11. Alla fine del giro si accumulano 1500 m di dislivello e 8 ore buone di cammino, prima di consegnare all'automobile le membra doloranti! Ed è notte, a Rassa, quando ci arrivo, foto 12. Al contrario, salendo da Rassa direttamente per la Val Gronda si arriva all'Alpe Salei in meno di due ore. Un ruscello separa l'alpe da un pianoro su cui si trova il rifugio Salei, sempre aperto e molto rustico; da lì per Campo e Stuva si scende a Goretto, sulla via per Rassa.

Ecco, stavo appunto scendendo verso l'Alpe Salei. Già dall'alto vedo un po' di bestie in giro e la piccola sagoma di un pastore impegnato a far qualcosa... arrivo e trovo una figura pacata e dignitosa sia pur in abiti rustici da alpeggio e sotto una pelle scolpita dal sole. Dopo il saluto, una mia esitazione, un rallentamento, il guardarmi attorno per un secondo o due, quella breve incertezza che equivale a una domanda, ad un inizio di dialogo, uno sguardo in più che tradisce comunque disponibilità, fanno sì che egli mi chieda da dove vengo. Sarà solo la prima di tante cose che si dicono in questi momenti, forse cose solite, ma nuove perché nuova è la persona che hai davanti, nuovo ciò che da essa puoi sentire, e il tutto si chiama compagnia, quella grande e semplice cosa che riscalda il cuore.
Mi confido, chi sono, dove vivo, i miei pensieri... e lui si confida, un paio di baite dell'Alpe del Lago sono sue, ma è sceso perché l'erba lassù è già ferma: a fine agosto ai 2000 m arriva già un po' di quel freddo che blocca la crescita e allora giù, un poco per volta. Qui al Salei, 1700m, si sta meglio, noto subito un antennone radio (o telefono?) alto diversi metri, e la parte abitativa è ben ristrutturata, il caldo e un pochino di comfort aiutano molto lo stare soli. Anche le bestie sembrano apprezzare il posto, ricco di erba ancora forte e viva. Ma non durerà molto, anche da qui bisognerà scendere, e quando sarà il momento te lo faranno capire l'erba, l'aria, le bestie, perché sono loro che comandano, che danno il via. Qui bisogna saper guardare, ascoltare i tutti i segnali. Con l'attenzione e il rispetto per il lavoro che fai e per il 'dove' in cui ti trovi, riesci a fare le scelte giuste al momento giusto, altrimenti sbagli e ci rimetti qualcosa.
Mi parla di qualche raro passaggio di gente che spesso vede solo da lontano, pochi che raramente o mai sanno regalare un po' del loro tempo. Si chiama Mantello Lorenzo, detto "Sinu" (che sta per Lorenzino). E' cugino di quel Federico Tiboldo di cui raccontai... e mi spiega anche dove lo posso trovare, nel biellese... è da questo preciso istante che mi torna l'idea di cercare (finalmente!) il 'Ricu', 22 anni dopo averlo fotografato al Pianprato, ... ma passeranno altri 5 anni!! In quel mio libro interiore segno le cose e poi le dimentico, non per sempre, ma per un po'... finché non lo riapro e ne giro qualche pagina.
A volte un po' in ritardo, altre volte quel ritardo è irrimediabile.
E' sera, ho più di un'ora per arrivare a valle, ci salutiamo, Sinu dà una carezza al mio cane, la setterina calma e buona che non dà noia alle bestie, anzi a nessuno. Per questo ci apprezza entrambi. Non sono rari in montagna gli incontri imbarazzanti con cani poco educati, a volte con padroni uguali ai loro cani. A Rassa ci arrivo a notte fonda, ma mi accoglie, molto fotogenico, un paese sapientemente illuminato (foto 12).

Agosto 2006, ripasso da lì, Alpe Salei è deserta, salgo all'Alpe del Lago e trovo il "Sinu" intento a rivoltare il letame nella 'tampa', la fossa adiacente alle stalle, sopraelevata sul pascolo, sul quale poi farà cadere il fertilizzante. Stento a riconoscerlo, un po' perché un anno fa lo ricordavo come in foto, calmo e pulito, mentre ora è sudato e sporco, ma anche perché mi pare molto più magro. Scaccio una spiacevole sensazione. Sono con un amico, oggi solo qualche battuta e saluti.
Si ricorda di me e del cane, che ho portato anche oggi, e ride divertito: "Eh, come faccio a stringerle la mano?" dice, alludendo alla "materia" che sta rimestando. Quando lavori in baita a 2000 m non fai il pulitino, e questi vecchi irriducibili non si curano delle protezioni, di coprirsi, di mettere i guanti, anzi mettono direttamente 'le mani in pasta' ... qui in qualcosa di peggio. Un motto abusato recita: "E' un lavoro sporco ma qualcuno ..." ma... accidenti, qui la realtà supera i modi di dire !! Ridiamo ancora entrambi, gli prometto di ripassare, per vederci con più calma, ora è meglio che non interrompa il suo, ehm, lavoro. E poi deve sbrigarsi, pulire e concimare, per nutrire l'erba del prossimo anno; tra pochi giorni scenderà più in basso, chiudendo l'Alpe del Lago, ma prima deve lasciare un segno di gratitudine al pascolo: il suo lavoro è il suo grazie alla terra e alla montagna. Servirà a far trovare, il prossimo anno, erba e fiori degni di un latte super.
Nel 2007 ripercorro lo stesso giro, ma in ottobre, ed è tutto deserto, sopra e sotto.

Nell'agosto 2008, scendendo da cima Tre Vescovi, passo dai due laghi omonimi e arrivo all'alpe Pian Prato, dove trovo dei pastori di età media, un po' di presentazioni, e va là! Sono cugini del Sinu! Un mondo piccolo, una specializzazione di famiglia. Hanno restaurato un piccolo abitacolo e lasciato le altre baite così com'erano, alcune crollate e altre semplici stalle con i muri a secco, quelli che il vento trapassa da parte a parte, i "ripari" che usava, e abitava, il 'Ricu' Tiboldo fino agli anni '80. Il Sinu, mi dicono, non è più in salute, non sale più, non si capisce cosa abbia, mi descrivono dove abita, una frazione di Buronzo. Sono con un amico anche oggi, dopo i saluti si va al Lago Lamaccia, poi per un sentiero quasi perduto al colle della Gronda, quindi giù a Montesinaro e Piedicavallo, più di 1700m di salita cumulata, tanto per...
Andrò dal Sinu, il pensiero gira e rode mentre cammino... poi anche il ricordo ancora recente di mio padre si fa sentire, la montagna scava e porta a galla anche le tue storie, specialmente quelle che giù dimentichi per il quotidiano che ogni giorno ti prende e distoglie, per le tante faccende e preoccupazioni che lavano la memoria e cicatrizzano le ferite. Il ricordare e il pensare mi accompagnano in silenzio, anche al mio amico il silenzio sta bene, culla forse qualche pensiero anche in lui, e così proseguiamo un po', ma è come se ci parlassimo, con il silenzio parlano le anime.

Giugno 2010, finalmente vado a Buronzo, chiedo e faccio vedere le foto... giro a vuoto qualche porta finché una signora riconosce il soggetto e mi indica "300m più in là, alla Cascina ---, il Sinu è lì".
E' lì, il pastore dal dolce carattere. Ci sediamo su una panchina, mi racconta che su al Salei adesso c'è suo figlio, lui ha cominciato ad avere dolori e difficoltà a camminare, riesce a muoversi quel poco che gli serve intorno a casa, non capisce cos'e questa malattia. O forse è di quelle che gli altri sanno e tu no. Poco resta, nel suo corpo, di quel montanaro che saliva oltre i duemila. Gli dò le foto del 2005, con lui all'alpe Salei. Si ricorda i miei passaggi, e mi sorprende: "il cane ce l'hai ancora?" "sì, sempre in gamba" confermo, e questa sua precisa attenzione a un dettaglio del mio passato mi commuove non poco. In fondo io ero stato un semplice episodio breve ed isolato. La mente però seleziona meglio i piccoli fatti che hanno procurato un sia pur piccolo piacere, e li conserva tra i preziosi.
Cerco battute che lo facciano ridere, mentre guarda le foto; è lucidissimo e mi racconta di uno che si è perso perché, scendendo dall'Alpe del Lago, invece del sentiero aveva preso un inferno di sterpi e ripidi pendii, poi ha cominciato a gridare, allora è andato lui a 'prenderlo'. Ne ridiamo, non per scherno ma per un'intesa logica tra noi, perché è chiaro che se era passato lui per aiutarlo, anche quel tipo poteva recuperare il percorso corretto, usando un po' di testa... "gent da città", così liquida il fatto. Continuo a fargli raccontare quello che gli viene al momento perché solo così lo vedo appena sollevato, soprattutto distratto dai suoi dolori. Come sempre ricordiamo i nomi degli altri pastori che ho conosciuto, lui li conosce tutti, o ne è addirittura parente! Il Federico Tiboldo, suo cugino, ora mi descrive esattamente dove abita, così saprò trovarlo, ci andrò a breve, finalmente, e da lì nascerà quel racconto già visto.
Gli parlo del Festa Remo, (il mio racconto n1, al passo Forič, GOL 3-6-2015), Sinu lo conosceva bene e sapeva anch'egli la storia del cannocchiale che portava al collo, il povero Remo, che è morto da tre anni, mi dice, e mi dice anche come, un crollo umano intriso di tristezza immensa. Ricordarlo ci impone un attimo di commozione e di silenzio. Per un attimo, di nuovo, parlano solo le anime.
Un'oretta passa in un attimo, in certi casi. Alzarmi mi suona male, mi dà la sensazione di commettere un peccato, ma prima o poi tutti tornano a casa. Lo saluto, gli dico - per quanto gli sia possibile - di fare uno sforzo per camminare un pochettino tutti i giorni, perché se sta fermo è peggio. Promette di sì, con il suo fare bonario, anche se in me so che poi non lo farà, ma mi piace pensarlo. Gli prometto di rifare ancora tutto il giro per portare le foto dell'alpe del Lago e del Pianprato, così rivedrà ciò che conosceva, dove viveva e le terre che percorreva fino a tre anni addietro. E gli resteranno le immagini, perché lui in tanti anni lassù ... di foto non ne ha mai fatta una. I ricordi di famiglia, le foto dei posti in cui sei stato, soprattutto di gente che non c'è più, per me sono qualcosa di sacro, di cui tutti devono avere rispetto, perché sono una parte di te che resta anche dopo di te. Se gli altri le buttano, c'è un cattivo sentimento che mi rattrista. Mai buttarle, anche dopo cento e più anni. Quando nessuno saprà più chi fossero quelle figure, averle conservate, meglio se con un nome e cognome scritti sul retro, avrà comunque il valore del rispetto. Sinu mi ringrazia in anticipo, sa che farò il giro, mi saluta senza tirarla per le lunghe, è così che deve essere quando si va via. Io sono un po' triste e Sinu rientra in casa senza voltarsi.

Un mese dopo ripercorro il giro completo, con foto. Trovo al Salei il figlio Antonio, che assomiglia un tantino a Francesco Guccini, solo un po' più magro e giovane. Gli parlo della mia recente visita a suo padre, e lo vedo poco convinto su un futuro migliore, comunque gli auguri sono sinceri. Con gli auguri cerchi di convincerti che può funzionare, li impregni di una tua forza sconosciuta, interiore, li fai perché pensi che possano piegare il corso delle cose. Li fai quasi con un po' di superstizione, come per creare dal nulla medicine miracolose anche se virtuali, che però... non si sa mai. Auguri che non fai per circostanza, in quel momento, ma in cui vuoi credere con tutte le forze. Auguri che diventano religione. Quasi potessero intercettare certi filamenti di destino sparsi qua e là nell'universo e modificarli con le dita della mente.

Il 4 novembre 2010 muore il "Ricu" Tiboldo, ed io, solo due giorni dopo, all'oscuro di tutto, vado nel biellese a casa sua per trovarlo e portare anche a lui qualche foto fatta nel 'gran giro'. Le lascio ai suoi e vado al loro piccolo cimitero, nel cuore il peso dei cambiamenti avvenuti, quelli da cui non si torna. Da lì arrivo a Buronzo, alla cascina di Sinu e famiglia, che sanno già, ovviamente. Facciamo commenti tristi, poi le foto del giro consentono di deviare un po' discorsi e pensieri, e di stemperare l'atmosfera. Ci lasciamo con sorrisi e dolori, come troppo spesso succede, e con la mia promessa di vederci ai primi caldi.
"Tieni duro e cammina un pochettino ogni giorno, mi raccomando Sinu, ciao".

Aprile, 2011, una gita organizzata all'Euroflora di Genova; sul bus, chiacchierando con una donna di Gattinara, si passa casualmente a discorrere di pastori delle montagne, e vien fuori che lei conosce i Mantello. Il Sinu è morto da due mesi.
Un altro tassello della storia umana delle mie montagne si dissolve. Un altro protagonista non c'è più, ed era un uomo buono. Un'altra lezione, l'ennesima sui propositi: se hai in mente qualcosa per qualcuno ... fallo subito, il domani, se va bene, si ripeterà, ma solo per un po', sovente per troppo poco, talvolta per niente. Quanti propositi "per domani" ognuno di noi ha dovuto cancellare?
Quel giorno pensai: "Ciao Sinu, non avrò più foto né cani né discorsi da portarti, mi resta solo il pensiero e qualche ricordo da spargere ovunque andrò, lassù tra sassi ed acque, tra i fiori della terra ed i campanacci di chi porta ancora le sue bestie in montagna.
E questo mio racconto.
E se troverò qualcuno che ricorda il tuo nome, ripetendolo insieme ti ridaremo un po' di vita.
E anche le pietre ascolteranno, anche le pietre ricorderanno.

Ennio Bertona
(vecchie storie in montagna n. 3)

Commenti: 2 - Scrivi commenti

Glauco Guaitoli

Ciao Ennio,
grazie per queste testimonianze di un mondo, un modo di essere e persone che stanno sparendo, o comunque mutando profondamente.
Non ho avuto modo di conoscere altro che i percorsi che descrivi (non tutti, ma alcuni si), mentre - con mio rammarico - sono sempre stato troppo frettoloso e poco disponibile, verso coloro che vivevano le loro dure giornate di lavoro nei luoghi che io frequentavo per diletto.
Ripensandoci, avrei potuto comportarmi diversamente, raggiungendo una cima o un colle in meno, ma tornando a casa più ricco.
Non è mai troppo tardi per riconoscere i propri sbagli: anche quando non può più servire per esperienza futura.
Grazie per questi racconti, che meritano di essere raccolti e tramandati, a testimonianza di un mondo e di persone che non troveremo mai nei libri di storia.

2018-02-20 13:33:16

Ennio Bertona

Ciao Glauco,
Per carità, non rammaricarti.
Andavamo tutti di fretta, in montagna.
Fretta di arrivare, di far la scampagnata, o di far tanta fatica...
È solo dopo i 30 che ho casualmente iniziato a fermarmi in quel Pianprato con il Ricu, quella volta era la prima, all'inizio quasi pensavo " sì vabbè ma devo andare..." poi pochi minuti dopo è cambiato qualcosa dentro, sono come entrato a far parte dei suoi bisogni, della sua vita in quei posti, almeno a capirne lo stato, abbandonando la mia esigenza di fare in fretta a tornare.
Forse da lì ho preso l'abitudine di tornar giù di notte dalle cime senza preoccuparmi troppo, in ogni caso sono diventato disponibile ad ascoltare, a dare compagnia.
Non è successo tante volte, non è quella gran fatica, e quando capita bisogna farlo. Un mese dopo incontrai il Festa Remo al Forič. Era, ero io, diverso e venne tutto naturale.
La finalità di questi racconti è questo suggerimento a dare un po' di compagnia, oltre al ricordo, cosa per me sacra.
Ennio

2018-02-24 20:17:43

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